“ La Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 2653/2021 torna a occuparsi dell'assegno di divorzio e decide in questo caso di confermarne la revoca, già decisa in sede d'Appello, perché in effetti la beneficiaria ha soli 46 anni, non è malata e quindi può trovare un impiego che le consenta di rendersi autonoma dal marito. Il fatto che la stessa abbia un atteggiamento rinunciatario nel trovare un'occupazione non giustificano il mantenimento della misura in suo favore stabilita dal giudice di primo grado.”
(www.StudioCataldi.it)
L’art. 5, sesto comma, della legge 828/70 prevede che con la sentenza di divorzio il Tribunale possa disporre la corresponsione di un assegno periodico in favore del coniuge che non ha mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni oggettive. Il Giudice dovrà, però, procedere tenendo conto in maniera rigorosa dei criteri contemplati dalla norma (condizioni e reddito dei coniugi, ragioni della decisione, contributo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio, proprio o comune), da valutare anche in rapporto alla durata del matrimonio. La brevità dell’unione coniugale è uno dei criteri principali in materia di assegno divorzile, oltre, alla valutazione necessariamente complessiva dell’intera storia coniugale e prognosi futura, determinando l’assegno in base all’età e allo stato di salute dell’avente diritto. In relazione al criterio del tempo, l'esborso deve essere negato qualora l'unione sia durata poco. Il fattore "durata" del matrimonio è un elemento che è stato valorizzato in diverse occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, in applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 18287/2018 secondo cui “all'assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa”. E’ proprio la considerazione della funzione compensativa e perequativa dell’assegno divorzile che non ne consente il riconoscimento al coniuge il cui contributo alla formazione del patrimonio familiare risulta minimo se non nullo. La citata sentenza della Cassazione specifica, altresì, che il richiedente l’assegno deve essere “oggettivamente impossibilitato a procurasi mezzi adeguati”. Il giudice di merito dovrà necessariamente accertare quale sia l’impedimento del coniuge richiedente a procurarsi un’occupazione idonea, soprattutto se si tratta di una persona giovane con piena capacità lavorativa e con titoli di studio superiori. Con un’altra sentenza (n. 12021/2019) la Suprema Corte ha confermato il provvedimento della Corte d'Appello di revoca dell'assegno di mantenimento in precedenza riconosciuto a una donna e posto a carico del marito. La signora si era focalizzata sulla sola disparità dei redditi attuali, senza in alcun modo soffermarsi o smentire la valutazione compiuta in merito alla breve durata della convivenza e alla non incidenza sulla formazione del patrimonio delle parti. Il nuovo paramento dunque è fondato sulla possibilità del coniuge di ottenere una indipendenza economica. Una volta assunto che l’indipendenza economica del coniuge richiedente o la possibilità di conseguirla costituiscono un elemento capace di escludere in radice la titolarità del diritto all’assegno divorzile, si pone il problema di individuare gli “indici” in presenza dei quali è possibile affermare che detto presupposto ricorra. A tal fine, la Cassazione pone l’accento su quattro elementi che il giudice deve considerare alla stregua di indicatori di quell’indipendenza economica in presenza della quale dovrebbe escludersi la titolarità di un assegno divorzile in capo al richiedente. In particolare l’indipendenza economica potrebbe ricorrere, allorché, il richiedente sia in “possesso di redditi di qualsiasi specie”; oppure disponga di “cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari”; o, ancora, sia dotato di capacità e possibilità effettive di lavoro personale in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente ed autonomo; infine, nell’ipotesi in cui abbia la “stabile disponibilità di una casa di abitazione”. In sintesi, dunque, nel valutare la spettanza dell’assegno divorzile, il giudice non dovrà tenere conto tout court del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma dovrà essere attribuita rilevanza sia alla possibilità del coniuge richiedente l’assegno di vivere autonomamente e dignitosamente, sia all’esigenza compensativa del coniuge più debole per le aspettative professionali e reddituali sacrificate per aver assunto un ruolo trainante endofamiliare che ha apportato un decisivo e dimostrato contributo alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge. A fare da bussola sono state proprio le due sentenze capitali della Cassazione (n.11054/2017 e n. 18287/2018) a Sezioni unite. Con la prima è venuto meno, quanto a criteri per la determinazione del valore dell'assegno di divorzio, il tradizionale parametro della conservazione del tenore di vita; con la seconda si è chiarito che l’assegno ha funzione di riequilibrio, non tanto per assicurare le medesime condizioni di vita, ma piuttosto a titolo di riconoscimento dell'apporto dell'ex coniuge più debole alla vita familiare. Approdo più aderente a una concezione del matrimonio non più visto come riparo di tutta una vita indipendentemente dal suo esito. La Suprema Corte conferma ancora questi concetti in una recente pronuncia (Cass. Sent. 22/06/2020 n. 12058/20) che riprende le precedenti affermazioni delle Sezioni Unite. Questo significa che deve essere il coniuge stesso a dimostrare di non potersi mantenere per cause a lui non imputabili. L’onere della prova del merito dell’assegno spetta al coniuge richiedente l’assegno di divorzio, che deve dimostrare di essere anziano per lavorare, o di avere patologie, o di avere cercato un lavoro iscrivendosi alle liste di collocamento, inviando curricula e partecipando a bandi di concorso pubblico. Se la solidarietà post coniugale si fonda su principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, non si potrà che attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali che ”l’ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva, facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale”. Anche la giurisprudenza di merito si è pronunciata in tal senso in diversi provvedimenti. È quanto accaduto nella recente vicenda portata all'attenzione del Tribunale di Verona che, con la sentenza del 15 maggio 2020 (est. Dott.ssa Virginia Manfroni), non ha confermato l'assegno divorzile, tra le altre cose proprio in virtù del fattore “tempo". Il Tribunale, infatti, ha negato la spettanza dell'assegno riconosciuto alla ex moglie, disoccupata di 59 anni, in quanto la breve durata del matrimonio, appena tre anni, avrebbe impedito il consolidamento dei doveri di solidarietà e assistenza familiare. Ma questo non è l'unico elemento preso in considerazione dal provvedimento, che si è soffermato anche sulla situazione patrimoniale del coniuge obbligato, ritenendo che la sua condizione economica fosse inidonea a giustificare un permanente sacrificio delle proprie limitate disponibilità. La citata sentenza di merito era già stata preceduta da diverse pronunce in tal senso (Tribunale Vicenza, n. 2328/2019; Tribunale di Treviso Prima Sezione Civile sentenza del 09.01.2019; Tribunale di Udine, n. 652/2018; Tribunale di Roma n. 24007/2016 ).